12 agosto 2006

Perché studiare matematica e latino
















Abbandonare lo studio del latino a partire dalla media è stato un errore.
Ancora più grave il fatto che si è destrutturato l'insegnamento concisamente, abbandonando anche i due potenti strumenti dell'analisi grammaticale e logica che accompagnavano il latino.
Oggi, la matematica è restata sola a fare il ruolo della cattiva e della selezionatrice.
La conseguenza è odio per la matematica e incapacità di incanalare il pensiero su vie razionali.

Lo studio del Latino contribuisce allo sviluppo delle capacità astrattive della prima adolescenza.
La consecutio, i verbi irregolari, le proporzioni matematiche...
affinano l'abilità di manipolare concetti diversi tra loro.

Le altre discipline, invece, sono soprattutto descrittive.

A questo indirizzo è possibile scaricare un Saggio in materia di due ricercatrici dell'Università di Trieste.
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1 Commenti:

Alle 14:00 , Blogger Harlockane ha detto...

I più concordano nel ritenere che nella scuola media unica [N.B.: inferiore] il profitto non debba consistere in una somma di cognizioni, ma in un complesso esercizio mentale ed in un esperimento di capacità; alcuni ritengono che insieme alla matematica, il latino, cioè lo studio grammaticale della morfologia e della sintassi della proposizione, sia la disciplina adatta per questo esercizio e per questo esperimento, altri ritengono invece che lo studio del latino sia tempo perduto. Io non sono d'accordo con questi ultimi, e vorrei essere ignorantissimo di latino per poter sostenere senza sospetto quella che ritengo la buona causa. La difesa maggiore del latino consiste nella domanda stessa che fanno isuoi avversari: a che cosa serve il latino? Appunto, non serve a niente di concreto, di visibilmente utile, non serve a dare vesti né cibo, non serve a far vedere come è congegnata una macchina, come funziona, come si guasta, come si ripara; non serve né all'economia privata né all'economia pubblica; serve soltanto all'esercizio, all'applicazione mentale sulla grammatica di una lingua che si studia con l'occhio soltanto e non con l'occhio e con l'orecchio.

E non si può fare questo studio sulla lingua italiana? domandano; no, rispondeva Antonio Gramsci. Il latino si studia - egli diceva - si analizza nei suoi membretti come una cosa morta; ma ogni analisi fatta da un fanciullo non può essere che su cosa morta. La lingua italiana il fanciullo la sente parlare variamente, dai suoi genitori, dalle persone della casa, della strada, della scuola, frammischiata, corrotta, alterata se non è in paese di Toscana; e se anche è in paese di Toscana essa giunge al suo orecchio con varietà di suoni, di accenti, di termini, di locuzioni, di nessi secondo la persona che la parla.

La lingua latina non la parla nessuno, non la si ascolta da nessuno, vive nelle pagine mute della sua grammatica, dei suoi libri di aneddoti, di sentenze, di favole con la immobile certezza delle sue forme.

Ma, si dice, non si potrebbe fare questo studio sulla lingua francese? Ma, rispondeva Antonio Gramsci, una lingua viva può essere conosciuta e basterebbe che un fanciullo solo la conoscesse perché l'incanto fosse rotto e tutti accorrerebbero alla scuola media per impararla più presto e forse anche meglio; e voi sapete che quando si vuole giustificare la scarsa o la cattiva conoscenza di una lingua viva si dice di averla studiata nella scuola. "Ma il latino è difficile e faticoso"; senza dubbio, appunto perché esso impone un continuo controllo allo scolaro il quale non può andare avanti se ha dimenticato quello che ha prima imparato. Ma la difficoltà, la noia, la fatica sono alla base di ogni sentiero che porta verso l'alto.

Non parlo, compagni, per amore del latino; come ho già detto in precedenza se io fossi sicuro che il giuoco degli scacchi potesse portare a uguali risultati, opterei per il giuoco degli scacchi.

Stiamo attenti, compagni; le grandi catastrofi come quella che ha colpito l'Italia e l'Europa, le grandi catastrofi tendono a portare in basso l'umanità; facciamo in modo di non aiutarla questa discesa che oggi sarebbe un precipizio. Oggi c'è chi crede che siamo ad una nuova epoca di cultura; io direi in un nuovo ciclo di civiltà (civiltà è il termine preciso, giusto, che nel suo rapporto ha adoperato il compagno Togliatti). Il progresso miracoloso della tecnica negli strumenti di lavoro e di produzione ha enormemente abbreviato il limite di trapasso dalla civiltà capitalistica verso la nuova civiltà socialistica; un trapasso che porterà un nuovo ordine giuridico e morale del mondo. Ma civiltà diversa non vuol dire umanità diversa e non vuol dire cultura diversa; la storia non è nuova a questi grandi cicli che hanno tramutato la struttura economica, politica e sociale delle genti senza naturalmente tramutarne la struttura intellettuale e spirituale: da Pitagora siamo passati a Copernico, a Newton, a Galilei, dagli atomisti della Grecia siamo passati alla bomba atomica; dai drammi di Eschilo siamo passati a Shakespeare, la più grande opera della poesia umana; dal romanzo medievale siamo passati ai romanzi moderni di Francia, di Russia, di Germania, di America restando nello stesso corso infinitamente progressivo di indagine scientifica e di creazione artistica. Noi stiamo subendo l'abbaglio della tecnica e l'incanto del motore; c'è chi crede che il mondo sia tutto trasformato e rimutato dalla tecnica solo perché il motore domina nel meccanismo esterore della nostra esistenza, perché le distanze sono enormemente abbreviate e quasi scomparse, perché la terra è rimpicciolita ai sensi dei mortali, perché poderose braccia metalliche sono mosse in un crescente vortice di produzione da esili dita, dalle piccole braccia dell'uomo esperto; ma quest'uomo esperto, quest'uomo mortale, questa cosa da nulla, come diceva di Ulisse il ciclope Polifemo, resta il massimo miracolo della terra non solo attraverso le scoperte della meccanica e della fisica, ma anche e più attraverso l'attività e le creazioni dell'intelletto e dello spirito.

Ho sentito dire che la scuola deve formare l'uomo moderno; io non so che cosa sia quest'uomo moderno. La scuola deve formare l'uomo capace di guardare dentro di sé e attorno a sé; a formare l'uomo moderno provvederanno i tempi in cui egli è nato. Ogni uomo è moderno nell'epoca in cui vive.

Passati i limiti della scuola obbligatoria, giunti sulle soglie della scuola specializzata, della scuola professionale, della scuola media superiore, si deve iniziare l'opera salutare di selezione che Quintino Sella, il vecchio statista piemontese, auspicava senza vederne i modi e la possibilità di attuazione, quest'opera di selezione la quale deve consistere nel dirigere e nell'avviare tutte le attitudini e le capacità dei singoli individui verso quelle vie in cui possono più degnamente operare e progredire. Selezionare non vuol dire costituire la folla degli umiliati e dei reietti, vuol dire disperdere la folla degli spostati e per spostati intendo semplicemente coloro ai quali le facoltà naturali indicano altre strade degnissime di opera e di profitti che non siano quelle delle scuole superiori.

[...]
(Concetto Marchesi)

 

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